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Casa Editrice: Autore/i (a cura di):
Libreria Castellano Editrice di Patrizia Perrera   Pietro Carbone

Li cundi re li vavi nuosti (racconti del vecchio cilento)



Giacomo Leopardi scriveva, ora non so di preciso se nello Zibaldone o in qualche lettera, «La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlarono e la parlano, e la storia della lingua è la storia della mente umana». Ora perché ho voluto citare il Leopardi nella presentazione di questo insieme - io direi, non solo di racconti, di favole, di leggende e di barzellette di altri tempi, come vedremo - che all'occhio inesperto e frettoloso e, a volte, presuntuoso dei più, potrebbe fare storcere il naso? Ma perché è necessario fare un discorso sulla differenza sottile che intercorre tra lingua e dialetto. Mi diceva, circa due anni fa, e ripeteva per televisione giorni or sono, l'amico Gian Luigi &eccaria, che, per certe parole entrate nell'uso corrente, si potrebbe parlare di lingua e per altre no. Diceva che alcuni fonemi mangiarecci pubblicizzati dalla televisione ora fanno parte della lingua, mentre prima erano del dialetto di questa o di quella regione. Noi non entriamo nel merito per ovvi motivi. Dicevo che il confine tra lingua e dialetto - ed il concetto non è mio, come si evince dal paragrafo più sù - è molto labile; ma noi vogliamo puntualizzare dicendo che: è lingua tutta ciò che viene accettato universalmente a livello nazionale e viene codificato soprattutto nei dizionari; è dialetto, tutto ciò che rimane in ambito locale, di paese, di contrada e con il quale non si è riusciti ad esprimere un'opera letteraria di qualsivoglia entità Una Lingua è anche un insieme di regole, e non pub essere diversamente, senza le quali saremmo in piena anarchia. Gerhard Rohlfs - conosciuto diversi decenni fa per merito e in casa di Pietro Ebner - diceva che l'Italia é fra le nazioni europee che gode del privilegio di essere il paese più frazionato, linguisticamente, con i suoi dialetti; e, quasi tutti, hanno creato delle opere d'arte. In questo angolo di Cilento troviamo - per mezzo dei cundi, ancora un linguaggio vivo e parlato - i residui di un vecchio latinismo e soprattutto residui della quarta declinazione latina. E tanto per dare un'idea, bastano queste stringate esemplificazioni: la mano e poi con il plurale neutro le mmano, la fico, le ffico. Ancora sopravvive il neutro latino nella classe dei sostantivi, che esprimono sostanza, riconoscibile nel pronome illud usato come articolo, il quale produce la germinazione della consonante iniziale: Lo Matte, lo mmèle, lo ssàle, lo bbino. Tutto ciò è testimoniato dal cundo 28 °, intitolato: «A i tiempi re le ffatocchiare, ca craj è sapato», dove troviamo la narrazione che inizia direttamente in dialetto, non solo, ma dove vengono fuori le regole più su accennate: «Apprima ng'erano le ffate, li maj, le ffantàseme, le ffatocchiare e...» Qui ancora l'aggettivo possessivo si aggiunge informa enclitica al sostantivo, come in rumeno: ftàtemo, sòreta, pàtrimo, màmmata, mugglierèma. Qui ancora troviamo avverbi come cras (trai); oppure una arcaica forma di condizionale: avèra per "io avrei", cantèra per "io canterei", putèramo per "noi potremmo"; forme che corrispondono al latino potùeram, pronunciato nel tardo latino volgare potuèra(m), che ritroviamo nello spagnolo: pudiera, vendiera. Una cosa che faceva notare il Rohlfs è che in quasi tutti i dialetti d'Italia e per la totalità delle parole dialettali, la perdita delle consonanti finali. L'italiano non ha parole che finiscono in consonante, mentre in latino molte finivano in -s, in -m, e in -t. Ora di queste tendenze abbiamo testimonianza in alcune iscrizioni di Pompei in cui si legge, per esempio: Abiat Venere Bompeiana iratam hoc qui laeserit, (notate la B al posto della P) oppure: Quisquis ama valia, pena qui nosci amare. Cosi in altre iscrizioni dell'età imperiale si ha mate, frate invece di mater e frater e questo ci permette di capire quanto ancora i nostri dialetti siano arcaici e legati al latino. Per inciso, mi piace riportare questo detto in siciliano: 'u scecco ccu' `u stecco si shtrica, ed in latino: asinus cum asino fricat; cioè: l'asino si strofina con l'asino. Ma notate in siciliano quella "sh" che è una sibilante, e come la trovate anche nella parlata di Cannalonga, patria di origine di questi cundi. E qui mi fermo per non invadere il campo di una futura ricerca di qualche studente in filologia delle nostre parti, che, partendo da queste mie semplici osservazioni, potrebbe estendere ed arricchire una ricerca ed un'analisi molto proficua per una carta storico-linguistica del territorio. Ora, per non farla lunga, ho voluto fare questo breve cappello per giustificare il narrato del libro che veniamo a presentare, espresso in un tipo di lingua letteraria italiana e in un certo tipo di dialetto. La lingua italiana usata da Pietro Carbone in questo suo lavoro di trascrizione, e una lingua che ha una sua movenza sintattica - ma diciamo, di stile - e precisamente la lingua-dialetto del suo paese. E suite orme di quanto. diciamo abbiamo voluto mettere in copertina la scena della vecchina che racconta ai due bimbi favole di un tempo, quando ognuno di noi era veramente portato a favoleggiare, lubrificando così quella facoltà del nostro cervello che chiamiamo fantasia. 1 tre sono attorno ad un focolare di una modesta casa di un borgo sperduto della terra. Non mi è servita la testimonianza dell'autore per capire tutto ciò, perché nei racconti si evince proprio questo mondo del passato che, chi ha superato la cinquantina, conosce, avendolo vissuto in prima persona in un qualsiasi paese della nostra Italia; tanto per non andare oltre. Basta leggere l'introduzione: «Quando, nelle nostre case, di sera, al momento in cui il vento e la pioggia arrestavano in casa i piccoli, la nonna o una qualunque persona anziana, prendeva a raccontare una "storia", ...». Notate quelle virgole insistenti quasi ad ogni parola, quasi a volersi soffermare, quasi a volere assaporare l'attimo della propria favolosa fanciullezza, quando ancora «cotesta età fiorita / è come un giorno d'allegrezza pieno,». (G. Leopardi, il Sabato del villaggio, vv.44-45) E poi, nella stessa, quando cerca di giustificare con maliziosa ironia tutto ciò che gli altri spacciano per vere storie e per giunta cilentane: «E per quanto poi si sentiva dire che "Li cundi cundati non hanno nisciuna parola re veritati"..(notate come il narrato appaia detto da un autore del trecento) e così fatterelli che forse fanno parte di contenuti più vasti e più artisticamente validi, non potendone scovare l'origine e l'eventuale trascrizione sui libri, mancando il denaro per comprarli, anche riascoltati altrove, si rimaneva convinti che la patria di origine fosse e restasse quella dove, la prima volta, li avevano sentiti.» E questo impadronirsi della paternità del racconto o della poesia, quando questi li riscopri dentro di te, è un fatto mediterraneo, riscontrabile in modo particolare nella cultura araba. Per un uomo di cultura araba o islamica in generale, commuoversi e sentire la risonanza di un detto, di una poesia, di una verità in genere e poi comunicare ad altri le stesse cose con la sua paternità di autore, dimenticando l'autore che a sua volta aveva dimenticato l'autore precedente e così all'infinito, è un faro normale: tutto ciò ci riporta indietro nel tempo, con il pericolo di farci perdere la strada che noi dobbiamo percorrere, non badando alle trasversali che la intersecano. Ma credo, comunque, che se potesse avere a disposizione tutti i libri di racconti di questo mondo, sarebbe oltremodo difficile un riscontro, non solo nei temi, ma soprattutto in quell'atmosfera rarefatta con cui sono costruiti, E mi spiego. In ognuno di questi racconti non trapela un benché minimo accenno storico, una qualsiasi labile traccia che potrebbe ricondurti al momento storico in cui è nato. È come se la Storia fosse passata lontana da Cannalonga, ad eccezione del cundo 49 e 61 intitolati «Bellofronte» e «Miracolo della Madonna del Monte», dove abbiamo un accenno delle incursioni barbaresche sulle coste mediterranee e che in quelle cilentane si saranno verificate con maggiore frequenza, e del cundo 59, intitolato «Fine re li breandi», ove abbiamo un resoconto amaro del brigantaggio post unitario, visto in chiave prettamente popolare. E credo che questa mancanza di cenni storici sia proprio la chiave che tifa scoprire l'autenticità dei racconti: perché, chi ha ìn mente la dislocazione geografica di questo paesino del Cilento, che fa parte della provincia di Salerno, sa benissimo che la strada è stata costruita subito dopo la seconda guerra mondiale e che negli anni '80-'90 è stata sufficientemente ampliata. Come lo stesso toponimo dice, Cannalonga, è un insieme di case al disopra ed attorno ad un palazzotto, lungo una gola di montagne arcigne, e la strada provinciale muore là. Quindi il titolo del libro: «Li curdi re li vavi nuosti» - narrato in parte con il dialetto del suo paese e per la maggior parte in lingua che traduce meccanicamente il respiro ed il dettato del dialetto, con il suono della "d" al posto della "t" - procede fluido e snello come un libro di novelle del '300. Pure più sopra abbiamo notato questo intercalare di dialetto e lingua: lo si nota spesso lungo questo percorso favoloso della memoria, ma anche quando l'autore vuole esprimersi con maggiore efficacia, perché il dialetto è per lui la vera lingua con cui è stato allattato, e la lingua italiana, una lingua acquisita. Del resto, prima dell'amico Pietro Carbone, agli albori della nostra letteratura italiana, un grande del '300, Francesco Petrarca, scrisse le sue cose (nugae) più belle proprio nel dialetto di allora, chiamato volgare dagli specialisti letterari. Il Petrarca pensava di diventare immortale per il suo poema Africa scritto in latino. Ed invece no. Perchè egli non pensava in latino, non sognava e soffriva e gioiva e colloquiava in latino, ma in volgare. Per poter fare poesia, la lingua deve farsi carne e sangue: il verbo che diventa carne, come dice il grande Giovanni nel suo Vangelo. Il Petrarca disprezzava Dante, lo criticava e dava ad Intendere di ignorarlo, perché aveva scritto la Comedia in volgare; Comedia, che lui cercò di imitare nei Trionfi. Ma qui mi fermo, per non uscire fuori tema. Carbone si e nutrito con quel dialetto, ha sognato con quel dialetto, ha sofferto e favoleggiato e ha sentito quei cundi in dialetto e cost vuole riproporveli. Ma riproporli a chi? Certamente non a questa gioventù distratta dai mostri di cento sessantacinque milioni di anni fa o di telenovele sudamericane o di popoli anglosassoni in genere: ha bisogno di un pubblico che ha l'orgoglio di essere mediterraneo innanzi tutto e poi italiano e meridionale ed infine cilentano. E per questo motivo ha scelto questo tipo di espressione sui generis tra italiano e dialetto, non solo, ma ha anche voluto - nella narrazione in lingua - ricalcare lo stile di lingua dialettale, cosa che molto prima del nostro autore fece il grande Giovanni Verga. Già dal primo cundo, e sino all'ultimo, troviamo questo mondo mediterraneo o maschilista in genere, da rais arabo, dove un uomo vessato dalla moglie, umiliato, viene ammaestrato da un gallo che, niente po' po' di meno, ha la capacità di badare a trenta galline - una alla volta, per carità - mentre lui con una sola gallina - pardonnezmoi - donna, non è capace di farla stare al suo posto. li racconto è sicuramente nato nel nostro ambiente meridionale: con ciò non vogliamo entrare nel merito se sia giusto o meno l'atteggiamento del gallo. E così il secondo racconto trova per protagonista ancora una donna che tiranneggia, non solo, ma addirittura fa dei torti al Cristo quando andava in giro per la terra, E qui mi fermo, per dare il piacere agli altri di scoprire il fatto locale, sottolineato anche da un bisogno atavico di pane e di ricchezza che oggi ci fa semplicemente sorridere, dal racconto di qualche miracolo locale, ad un racconto difatti di brigantaggio, alla barzelletta vera e propria che qui diventa necessariamente cundo, ed anche a qualche scena boccaccesca, alla fine. Per sottolineare maggiormente quanto da me asserito, a proposito della fame atavica, basta subito leggere il cundo "Gioie amorose' che è proprio il settimo in ordine, dove un giovane sorpreso dalla pioggia si rifugia nella casa della fidanzata che si trovava più vicina alla sua corsa. Ebbene, la fidanzata, quasi sorpresa mentre sfornava il pane, per non darne all'uomo che aveva scelto per la sua vita futura, scaraventa il pane caldissimo, sulla cassapanca - che generalmente era nelle vicinanze del focone-forno-cucina degli abituri di una volta - mettendovi sopra la coperta che serviva per fare lievitare il pane, prima e poi per conservarne la fragranza calda, dopo. Vi si siede sopra, ma, il calore è troppo, ed il giovane morto di fame, sì, ma intelligente, capisce e la premia come si conviene. Ora un libro del genere, non è soltanto un fatto letterario, o almeno non vuole essere solo questo, ma è uno spaccato antropologico, un ingrandimento di un piccolo particolare storico. Il particolare storico lo troviamo nel cundo intitolato "Coincidenze strane" dove si parla di una località chiamata "Monte Russo", perché vi si svolse un fatto di sangue al tempo del brigantaggio politico post unitario. Un evanescente particolare storico, ma più misto a leggenda, è quello del cundo 37 intitolato «Mala sorte dei tempi passati» dove anche qui il racconto incomincia in dialetto e narra di un fatto che è un misto di religione e magia. t facile riscontrare lungo tutto l'arco della narrazione questo filo d'Arianna, quasi evanescente, che ti crea quell'atmosfera di fiaba, tra magia e credo cristiano. Una raccolta quindi che bisognerebbe leggere con diverse chiavi di lettura, non solo, ma che sarebbe bello poter proporre alle nostre scuole per essere un pretesto di ricerca e conoscenza storica del proprio territorio o di rivisitazione e di scoperta delle proprie radici culturali. A proposito di cundi barzelletta, basti leggere il tredicesimo della raccolta intitolato "Tra ambulanti". Qui mi fermo, per non tediare i lettori, che mi auguro siano molti e non per sete di guadagno, ma perché in questo libro potrebbero ritrovare quei modelli di valori che oggi abbiamo banditi dalla nostra società consumistica dove ha successo chi ruba e chi dà motivo di scandalo. Anche se la Scuola sicuramente ti ignorerà, come ha ignorato sempre i libri degli scrittori locali, perché non sono ammantati di mistero, senza titoli accademici, ed anche perché stampati da editori locali anonimi e non da grossi imprenditori del Nord, credo, comunque, che qualche lettore lo troverai, almeno io sono diventato un tuo lettore, e per forza: ho dovuto lavorarci su e anche presentarlo, ppe' mancanza r' uommini rabbene. Perdonami se non sono riuscito a fare di meglio: sono un uomo .senza titoli, l'unico titolo che posso vantare è quello del buon servizio che vorrei rendere ad una società che lo rifiuta. Omar Pirrera Vallo della Lucania, 15 novembre 1993

Codice: LCE002
285 Pagine - anno: 1994


Disponibilità: Media
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